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Liga Veneta Repubblica

Movimento

La Liga Veneta Repubblica è (ri)nata con queste idee il 04 ottobre 1998.

– Intervento di Fabrizio Comencini al primo congresso, è ancora di grande attualità.-

Con la risoluzione 42 approvata dal Consiglio regionale del Veneto il 22 aprile 1998 i cittadini veneti hanno riconquistato il loro diritto ad autodeterminarsi fissando un principio che porta il nostro impegno nel grande filone dell’autonomismo democratico europeo sulla scia di esperienze importanti, come quella catalana o scozzese.

Nel proporre, sostenere a far approvare quella risoluzione noi abbiamo rivendicato il diritto del popolo veneto alla propria identità, alla propria specificità, alla propria peculiarità non in contrapposizione con altre realtà, siano esse italiane o estere, ma proiettando il nostro impegno verso la costituzione di una Europa democratica che restituisca alle sue nazioni e regioni storiche la loro dignità.

“Il Popolo Veneto, attualmente aggregato e parte dell’ordinamento statale italiano – recita il secondo punto della risoluzione 42 – non è entità astratta e fantastica, ma una realtà storica, millenaria, viva e attuale, già giuridicamente organizzata in modo sovrano, in un preciso ambito territoriale, ove ancora oggi si parla la stessa lingua, si accresce .la stessa cultura, si valorizzano le stesse tradizioni, le stesse abitudini collettive, si difendono gli alti valori della comunità familiare, della nazione, dell’attaccamento al lavoro e alla solidarietà, della legalità e della giustizia”.

Pensate, dunque, con quale dolore, con quale lacerazione interiore, con quale rabbia anche, abbiamo vissuto le censure che ci sono cadute addosso da amici con i quali avevamo condiviso lealmente un difficile impegno politico per essere riusciti a far approvare, a far diventare punto fermo dell’ordinamento veneto, il principio della nostra identità: sono giunti persino a negare l’esistenza di un popolo veneto, né più, né meno, di quanto non facciano i reazionari più convinti a Roma, né più, né meno di quanto non dicano coloro che parlano del Veneto senza conoscerlo.

C’è troppa gente, in ogni dove, che parla per noi, ma non di noi, che s’arroga il diritto di parlare per conto nostro, ma mai dei nostri problemi.

Per anni abbiamo condiviso con altre regioni del Settentrione italiano il progetto di uno Stato indipendente e sovrano, nettamente distinto da quello italiano: non rinneghiamo quella scelta, non diciamo che essa fu sbagliata, sebbene l’evoluzione interna ed internazionale oggi l’abbia fatta decadere, come ha ammesso lo stesso Umberto Bossi. Sappiamo, anzi, che la nostra libertà, la nostra autonomia, la nostra indipendenza di Veneti, potrà esistere solo in uno scenario di popoli indipendenti e autonomi, perché la nostra libertà sarà in pericolo se i popoli a noi più prossimi vivono ancora sotto il giogo del potere romano. Se così fosse, nel migliore dei casi avremmo noi Veneti una sorta di libertà vigilata, che non è esattamente quello che auspichiamo.

Ma non si deve confondere questa nostra onesta convinzione con un atto di mera sottomissione ad altri, con la supina accettazione di scelte che superano gli interessi del nostro popolo. A casa nostra vogliamo essere padroni noi e vogliamo innanzitutto essere al servizio di chi vive e lavora nel Veneto e non dei meri portatori d’acqua al mulino altrui. Sottolineo questo punto: è insostenibile la condivisione di una linea politica che sacrifichi la nostra identità, la nostra peculiarità, il nostro essere veneti.

Nemmeno gli antichi romani facevano confusione tra Gallia cisalpina e terre dei Veneti. Gli antichi greci, da Omero in poi si esercitarono in una operazione che oggi definiremo di marketing o di pubbliche relazioni esaltando i veneti e la saga degli antenori, che non a caso verrà ripresa dal mantovano Virgilio nei primi anni di Roma imperiale per rimarcare le comuni origini tra latini e veneti. La leggenda vuole che San Pietro, nel 48 d.C., incaricasse Marco di fondare il patriarcato di Aquileia e nel viaggio la nave dell’evangelista venne scaraventata da una tempesta nelle infide acque della laguna facendola incagliare su una delle isolette sabbiose di Rialto. Incolume, ma stanco, Marco s’addormentò e in sogno gli apparve un angelo che gli disse “Pax tibi, Marce, evangelista meus, hic requiscat corpus tuum… PAce a te, Marco, mio evangelista, sappi che qui un giorno riposeranno le tue ossa. Ti sta davanti ancora una lunga vita, mio evangelista, e molte fatiche dovrai durare ancora nel nome di Cristo. Ma dopo la tua morte il popolo credente che abiterà queste terre edificherà in questo luogo una città meravigliosa e si paleserà degno di possedere il tuo corpo”.

Possiamo dire che non esiste una storia veneta? No, cari amici, la nostra terra, il nostro popolo ha una storia antica, che poche regioni d’Europa possano vantare per linearità e continuità, per sovranità mai calpestata dall’usurpatore straniero.

Il vessillo di San Marco compare nella storia veneziana all’incirca a metà del XIII secolo: “cum imagine Sancti Marci, in forma leonis” recita un decreto del Consiglio dei Dieci, decreto bilingue secondo il costume dei tempi, latino e veneto: “San Marco in forma di lion”. Metà del XIII secolo, quando buona parte dei grandi stati europei erano di là da venire, nella corte di Londra si parlava il francese, in Spagna fioriva la dominazione e la cultura araba.

Noi abbiamo una storia. Noi abbiamo una bandiera e a questa storia, a questa bandiera, alla nostra lingua, noi siamo fedeli e siamo pronti ad impegnarci in maniera civile per far sì che quella storia, quella Bandiera, quella lingua continuino a vivere e vengano riconosciute.

Non è venetismo di maniera, né nostalgia di un’età dell’oro mitica quanto improbabile. Perché se rivendichiamo con orgoglio le nostre tradizioni, la nostra cultura, la nostra bandiera, il nostro passato remoto, con altrettanto orgoglio rivendichiamo il nostro passato prossimo e gli anni a noi più vicini, che non parlano di conquiste militari, di epopee commerciali, di alta civiltà giuridica, artistica e letteraria, ma che narrano le vicende di un popolo costretto a combattere nemici come la fame e la pellagra.

Se Goethe nel suo viaggio in Italia descrive con ammirazione la campagna veneta, la sua ricchezza, l’affabilità del popolo, pochi decenni più tardi, dopo l’annessione al Regno sabaudo, iniziarono anni di tragica povertà e la grande diaspora del popolo veneto, con milioni di uomini e donne costretti ad espatriare: veneti brasiliani, veneti argentini, veneti cileni, veneti canadesi, veneti australiani, ancora oggi, ovunque siano innanzitutto e soprattutto veneti. Nelle nuove terre come nella madrepatria abbiamo vinto la nostra battaglia contro la povertà: anche questa è Storia, storia vera.

Non dimentichiamo che ancora sul finire degli anni Cinquanta, la nostra Regione aveva il saldo migratorio più alto tra le regioni italiane: in quarant’anni da esportatori di manodopera, siamo diventati importatori di manodopera e oggi la nostra terra è additata a modello e considerata di avanguardia nello scenario economico internazionale.

Questo miracolo è stato possibile grazie alla scelta di fondo di basare il benessere economico non attraverso le leve dello stato e le imprese pubbliche, bensì sull’imprenditoria privata, sul lavoro produttivo, sul capitale di rischio. Si è scommesso sulle propria pelle, sapendo però di avere alle spalle un tessuto sociale in grado di ammortizzare le tensioni ed eventuali momenti di crisi: prima di bussare alla porta dello Stato, un cittadino veneto sapeva di poter contare sulla famiglia, su amici, sulle comunità di base, su uno spirito di solidarietà, cui non fu di certo estranea la comune matrice cattolica e l’operato stesso della chiesa veneta, che non si è di certo esercitata in pratiche usuraie.

Questa rete solidale è ancor viva e solida oggi: pensiamo alle associazioni di volontariato, ai Donatori di Sangue, all’Aido, ai volontari degli Alpini. Lo spirito associativo coinvolge il 40 per cento della popolazione – 5 punti in più della media nazionale – e il volontariato attivo impegna il 14 per cento dei cittadini veneti, contro una media nazionale dell’11 per cento . “Gian Antonio Stella, che non è mai stato tenero con i suoi corregionali, chiedeva, in polemica con Furio Colombo che aveva assimilato l’imprenditoria veneta a Diabolik, dalle colonne del Corriere della Sera: “Cosa facevano i camion veneti che andavano e venivano sotto le granate in soccorso delle vittime della guerra in Bosnia: portavano viveri e medicinali o i gioielli rubati di Diabolik”?

Il veneto, voglio dire, ha una sua specificità non solo nella grande storia del suo passato, ma anche nel passato prossimo e nel presente. Da noi molte problematiche poste dalla necessaria quanto difficile revisione del Welfare State sono, per molti aspetti, già superate: non ci chiediamo come creare nuova occupazione, ma come consolidare le aziende, come far partecipare l’operaio nel capitale di impresa, come far confluire il risparmio nell’investimento produttivo, senza sottoporre le coronarie degli investitori agli scossoni dei listini di borsa.

Di questo Veneto noi dobbiamo essere fieri.

Noi, molto più e con maggiori ragioni ben più forti di quelle di altri, possiamo dire “veniamo da lontano e andiamo lontano”.

Siamo un modello nell’economia, ma possiamo diventarlo anche in politica: a chi ci dice che il Veneto è un gigante nell’economia, ma un nano nella politica, noi rispondiamo che la politica è lo specchio della società. Non è una provocazione, o una sfida: ma un impegno concreto. Se davvero pensiamo che il Veneto sia un gigante, per storia, tradizioni, cultura, valori, diamo al Veneto una casa comune che possa elaborare, contrattare e gestire innanzitutto l’autonomia del Veneto, secondo un modello che va affermandosi non solo in Europa, ma che in Europa vede i fulgidi esempi democratici della Scozia e della Catalunya.

Il problema dell’autonomia e dell’autodeterminazione non è una faccenda esclusiva italiana: è un dibattito che investe l’intero Occidente industrializzato come le nazioni in via di sviluppo. In questo dibattito noi vogliamo contribuire con il nostro contributo originale, ma seguendo il solco del migliore autonomismo democratico europeo, la tradizione del diritto internazionale, comunemente accolto. La devoluzione dei poteri dal parlamento di Roma al parlamento dei Venezia è possibile e praticabile, anche in tempi brevi e la casa comune dei veneti che noi proponiamo siamo convinti diventerà un modello di riferimento anche per gli altri popoli, ad iniziare da quelli della pianura padana.

Diciamo che la casa comune dei veneti non è solo una sfida positiva, civile e democratica per l’autonomia, ma la grande opportunità che noi veneti mettiamo a disposizione di tutti per mettere in moto il processo di riforma dello Stato italiano e, nel contempo, per dare una chiara indicazione per la costituzione europea.

Le riforme, che languono in Parlamento sin dalla fine degli anni Settanta, non si possono fare se non esiste un forte asse, una forte unione tra le classi produttrici. E questa è la seconda sfida che lanciamo oggi: fare un fronte comune tra tutti i ceti produttivi e le loro rappresentanze, per spezzare l’anomalia perversa che caratterizza lo Stato italiano, in cui ceti privilegiati dominano sottraendo e sperperando risorse a chi lavora e produce.

Assieme si può: chiedo a sindacati, associazioni di categoria, mondo del volontariato, alla scuola, alle università, ai pensionati come ai giovani e agli studenti: facciamo un fronte comune che dia sostanza concreta al dettato0 costituzionale italiano, per il quale l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

Se ciò è vero, tocca al mondo del lavoro, tocca a chi produce, farsi carico del processo di riforma, emarginando le forze politiche e sociali, che hanno scelto la facile strada della gestione del consenso attraverso l’erogazione di sussidi e prebende, con il protezionismo della grande impresa, la pubblicizzazione delle perdite del grande capitalista, al quale è concesso di scaricare sulla collettività ogni costo economico, sociale e ambientale.

Assieme si può. Noi nel Veneto viviamo già nella nostra quotidianità, nella realtà dei fatti, questa comunanza, questa unione delle classi produttrici. Nel Veneto possiamo dimostrare che è possibile dar vita ad uno stato leggero, libero da oneri impropri, autorevole e forte, capace di scegliere e di governare. Uno stato che non rinunci al dovere della solidarietà, ma che non faccia del sociale e della solidarietà un serbatoio di voti, un mercato vergognoso e umiliante.

In questo Veneto, assieme si può e si può dare una risposta alla domanda reale di politica e di stato che cresce nella società: la disaffezione dei cittadini, la lenta erosione di credibilità del ceto politico e delle istituzioni, non va letta solo in chiave negativa. Se il personale politico si trasforma in mero portatore di interessi particolari, se non privati in alcuni casi, con interi partiti tesi a conquistare il consenso non già attraverso il buon governo, ma con distribuzioni di sussidi, conquistando questo o quel finanziamento per la propria circoscrizione elettorale, tra mille contraddizioni e ricomposizioni nelle aule parlamentari di fronti omogenei e trasversali ai partiti, che vedono unite l’estrema destra con i comunisti per ogni provvedimento riguardante il Mezzogiorno, ma mai questa unità di intenti per investimenti o scelte che riguardano il Veneto, è chiaro che l’erosione di fiducia s’insinua come un tarlo nell’animo del cittadino. Se poi il cittadino riflette amaramente anche su altri aspetti, ad iniziare dallo stato della giustizia, ricaveremo uno scenario deprimente. Il motto “meno stato e più mercato”, che affascina parte dell’opinione pubblica, è una esemplificazione eccessiva, una reazione emotiva, che non coglie il bisogno palpabile di un recupero dello Stato, il quale deve ritornare ad essere autorevole ed efficiente agenzia di orientamento, di garanzia e indirizzo, capace di comporre le fratture sociali e dei ridurre le tensioni, assicurando giustizia e difesa, in grado di trasformare le diversità culturali, sociali, economiche e territoriali in ricchezze, opportunità, risorse.

Non si è azzerata la domanda di stato e di politica, ma tra i cittadini emerge con chiarezza il bisogno di una unità di comando, di rapidità delle decisioni, di efficienza e funzionalità delle istituzioni.

La crisi della politica, la crisi dello stato giacobino lascia un vuoto potenziale impressionante di cui abbiamo avuto esempi clamorosi in questi ultimi mesi: chi protegge i cittadini dalle bizzarrie dei mercati finanziari in cui possono volatilizzarsi nel volgere di poche ore anni e anni di risparmio sudati?

Alla autorità degli Stati si è sostituito il potere dei mercati. Ecco allora che un signor Soros può determinare il successo e la sopravvivenza di intere aree del pianeta, mettendo a rischio aziende vere, uomini e donne veri: non dimentichiamo che dietro ai numeri, alle statistiche, agli indici Mib, Nasdac o Nikkei, ci sono persone in carne e ossa.

No, abbiamo bisogno dello stato, abbiamo bisogno della politica. Ciò di cui non abbiamo bisogno è uno stato all’italiana, una politica all’italiana, ma deve essere chiaro per tutti che senza democrazia non c’è benessere. Ma la democrazia oggi è messa in discussione dalla tragica caduta di valori innescata dall’insipienza, dalla miopia, del sistema di potere italiano. “Storicamente l’etica dell’equa ripartizione dei contributi per il bene comune (anche se poi i benefici non sono necessariamente distribuiti con la stessa equità) ha sempre rappresentato il fondamento su cui poggiano le società veramente democratiche, così come le nazioni che attorno ad esse si sono formate. Quando questa etica vacilla o viene meno, accade altrettanto al collante che assicura la coesione di quelle nazioni”.

E’ quello a cui stiamo assistendo. E non possiamo assistere impotenti.

“Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti” ammoniva Pier Paolo Pasolini: oggi noi siamo chiamati appunto a fare appello all’intimo delle coscienze, ai sentimenti più profondi, confidando nell’intelligenza del nostro popolo.

Non offriamo chimere, sogni, riti druidici, né paradisi celtici, ma il purgatorio di un impegno quotidiano, concreto, difficile, onesto.

Sappiamo che abbiamo un cemento comune che nasce appunto dal nostro essere veneti ed essere fieri della nostra identità. Chi ci toglie questa identità, toglie una speranza alla democrazia, toglie la grande occasione che si presenta per fare bene, in maniera democratica e trasparente, quelle riforme che non solo noi veneti chiediamo.

Nel Veneto, e partendo dal Veneto verso l’Unione Europea, noi possiamo tentare di coniugare assieme benessere, sviluppo, solidarietà concreta e democrazia. Forse non sarà la quadratura del cerchio, ma un tentativo onesto e pulito. Sì, cari amici, possiamo e se possiamo dobbiamo!.

Un patto forte per rompere la spirale perversa che vede dominanti i ceti parassitari a scapito e danno di quelli produttivi; l’autogoverno della madrepatria veneta come strada per rafforzare le istituzioni democratiche, verso l’obiettivo di una Europa segnata da uno stato leggero.

Questa è la casa comune dei veneti.

Ma se puntiamo ad uno Stato leggero, ad un patto tra le classi produttrici, dobbiamo pensare anche ad una politica e ad una forma della politica completamente nuova, inedita, inaudita. I grandi partiti italiani, per noti e ovvi motivi, avevano organizzazioni burocratico-gestionali pesantissime ed elefantiache, con costi a tal punto elevati da essere inconfessabili, come inconfessabili erano – e sono a tutt’oggi – le fonti del finanziamento. Queste organizzazioni burocratiche si sono sovrapposte allo Stato e hanno occupato illegittimamente le istituzioni e ogni organismo, insinuandosi nelle redazioni dei giornali, come negli ospedali, nelle poste come nelle ferrovie, dilatando costi e spese oggi non più sostenibili.

Nel nuovo stato, nella nuova politica che noi vogliamo rappresentare, i partiti devono essere leggeri e trasparenti, da qui costi chiari e contenuti, tali da poter essere bene accettati dalla società.

L’autorevolezza dello stato nasce dall’equità e precisione delle norme; l’autorevolezza del politico si fonda nella trasparenza dell’agire, nella fedeltà al mandato ricevuto, nelle mani pulite.

La casa comune dei veneti, anche nella sua struttura, nel suo organigramma, deve trovare ogni giorno un ideale di riferimento. Un ideale che solo può darci autorevolezza e che ogni giorno ci rammenti che autorevolezza non significa autoritarismo, azzeramento di ogni dibattito interno, emarginazione di ogni ipotesi di confronto anche su temi scomodi, su decisioni difficili e impopolari.

Una leadership comune, dunque, con chiara individuazione di compiti, ruoli e funzioni, evitando sovrapposizioni e conflitti di competenze. Ma questa struttura funzionale esclude, per definizione, la presenza del cosiddetto leader carismatico. Abbiamo avuto troppi leader carismatici nel secolo scorso e in questo secolo, troppi che si ritengono unti dal signore: non abbiamo bisogno di uomini della provvidenza, né di demiurghi taumaturgici.

Le prime donne lasciamole al teatro, perché la politica non è una commedia, una farsa: fate attenzione al politico che si esalta davanti alle platee, che gigioneggia, che si droga con l’applauso. Alla lunga, dato fondo al repertorio di battute, pur di accattivarsi le simpatie del pubblico, scadrà nei gusti più plebei, nella volgarità oscena. Ma noi, se crediamo veramente nella democrazia, dobbiamo rigettare l’idea di chi vuole sempre e solo accontentare la platea: questa è l’anticamera del grande elemosiniere, di chi pensa di comprare i voti magari sfondando le casse comuni. No, cari amici: immagino una casa comune ben diversa dai modelli che ci hanno preceduto almeno qui in Italia. Immagino un politico che non sia sotto le luci della ribalta, che non brami le prime pagine e copertine di settimanali, ma che lavori sì alla luce del sole, nella massima trasparenza, ma che non ricerchi la pubblicità per la pubblicità. Lo stesso potremmo dire dei giudici e della giustizia: la sindrome della prima donna ha nuociuto a molte cause, ha spinto magistrati a sconfinare talvolta nell’illegalità. No. Adesso è arrivato il momento di dire basta. LA giustizia deve essere invisibile e deve lasciar parlare le norme e le sentenze. Questo non significa sottrarre il politico, o il magistrato, al controllo legittimo dell’opinione pubblica, ma invitare tutti ad evitare sovraesposizioni.

Niente leader carismatici, ma piuttosto gioco di squadra e collettivo ben rodato, per mutuare una immagine sportiva.

Questa impostazione leggera impone a noi tutti l’onere di coltivare una classe dirigente, di dar vita ad un vivaio positivo: ogni dirigente dovrebbe pensare al guasto possibile se un giovane che si affaccia alla politica ritrovasse anziché ideali, spirito di cooperazione, fiducia, solo guerre intestine, tentativi di delegittimazione, piccole e grandi ipocrisie, maldicenze e calunnie. Ai giovani veneti, agli studenti, a chi si affaccia al mondo del lavoro dico invece che nella nostra casa comune troveranno un motivo per mettere al servizio della loro società, della loro comunità, le energie, l’entusiasmo, la speranza per un domani migliore. Non abbiate paura: si nasce incendiari, magari si morirà anche pompieri, ma nessuno nella casa comune dei veneti deve arrogarsi il diritto di insultare la vostra disponibilità, di spegnere il vostro ardore.

Riscopriamo assieme il gusto di una politica fatta di ideali, riscopriamo assieme il valore del dialogo, dell’analisi fatta dal più umile come dall’inclito. Ci accuseranno magari di tersitismo politico, ma Tersite, per quanto antipatico sia, esprimeva l’opinione corrente, il comune sentire, il buon senso del soldato qualunque. Oggi il cittadino qualunque deve trovare una casa in cui parlare, sfogarsi e riscoprire motivi per dare sostanza alla democrazia e possibilità reali per concretare l’autonomia.

E qui il collante vero ritorna la nostra identità di veneti, il nostro interclassimo, la nostra volontà di ricomporre i conflitti e di trasformare le situazioni di difficoltà in opportunità positive.

C’è una storia che ci unisce molto più di quanto non si creda. C’è il bisogno di una nuova politica, che va emergendo non solo da noi, ma in molte parti del mondo, perché i problemi che stiamo vivendo non sono precipui e specifici della nostra realtà.

C’e voglia di politica nuova e onesta. Ma come abbiamo visto in Europa, come ci insegnano le vere classi dirigenti, bisogna dare alla nostra terra un governo responsabile, capace di assumersi la responsabilità anche di scelte impopolari, ma necessarie.

Questo è il grande gap che ci separa oggi dall’Europa: non i parametri di Maastricht, ma il fatto che gli altri si trovano davanti a noi, perché prima di noi hanno saputo e voluto incidere realmente nelle distorsioni dei loro sistemi.

In Italia si parla dal 1978 di riforme, sono passate e tramontate commissioni bicamerali su commissioni. In Gran Bretagna, una democrazia forte, realmente popolare, in sei mesi ha dato la devoluzione alla Scozia e l’assemblea ai Gallesi, facendo transitare questa svolta epocale attraverso il vaglio dell’elettorato.

Quando le cose si vogliono si raggiungono. E noi, nel filone democratico europeo, troviamo fonti di ispirazione e riflessione. Ma non abbiamo troppo tempo davanti.

Dobbiamo accelerare la costruzione della nostra casa comune. Questo non significa che rigettiamo ogni dialogo, ogni discussione, ogni rapporto organico con gli altri popoli che condividono questa nostra battaglia.

Chi vive e lavora nel Veneto, non solo chi è nato nel Veneto, perché chi è ospite nella nostra terra, chi l’abita onestamente, condivide con noi i nostri stessi problemi. Bisogna aver rispetto, se si vuole chiedere rispetto.

Bisogna saper ascoltare e tentare di comprendere le ragioni altrui, anche quando non le condividiamo: in ogni caso ne avremo un arricchimento. Non dico nulla di nuovo: tutto questo è nell’indole di noi veneti, che abbiamo fatto della tolleranza una virtù. E la politica, la democrazia, la nostra casa comune hanno bisogno di uomini virtuosi. Dobbiamo spezzare il circuito abnorme, per usare le parole di Luigi Einaudi, per cui in Italia i furbi governano con i soldi degli onesti. No, non vogliamo furbi o furberie, ma uomini virtuosi, dalle mani nette.

Ma come ammoniva don Milani, guai a trasformare la virtù in un simulacro, con il quale nascondere l’inerzia, la mancanza di idee, la rinuncia all’agire.

Perché la politica ha bisogno dell’azione. Dell’azione umile, come quella del sindaco che delibera i nuovi tombini, come dell’opera più grande.

So che a molti tutto questo sembrerà impossibile. Io ci credo, perché so che i Veneti sono capaci imprese ritenute impossibili. Assieme possiamo farcela. Vi affido questa speranza che oggi è un seme. Sta a noi saperlo far crescere, anche se sappiamo che questa è impresa improba. Vi lascio con una pagina di Albert Camus, sulla quale vi prego di riflettere:

“Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il suo fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padroni, non gli appare né sterile, né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantate di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

Sì, cari amici, questo nostro Veneto, novello Sisifo, ogni giorno spinge il suo macigno, dal più umile cittadino al più colto e raffinato: noi vogliamo vederlo felice.

FABRIZIO COMENCINI

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